Mario Franco

IL PERCHÉ DI UNA CORNICE VUOTA

DETTAGLIO COME METAFORA

IL PERCHÉ DI UNA CORNICE VUOTA

La mostra personale di Pina Della Rossa si apre con una sequenza di figure, ritratte di spalle, che sembrano intente a specchiarsi in un grande specchio racchiuso in una vecchia cornice «dove finisce e inizia, inabitabile – scriveva Jorge Luis Borges – l’impossibile spazio dei riflessi. Viviamo una vita senza mai sapere come realmente siamo. Brandelli e frammenti della nostra immagine corporea sono catturati da vetrine, vetri e specchi. Talvolta da fotografie». Lo specchio è, come noto, una delle costanti tematiche del grande scrittore argentino; lo specchio è deformante per definizione: restituisce un’immagine inversa a quella del reale. Ma anche per questo è un mefistofelico tentatore: seduce perché soddisfa il nostro faustiano bisogno di conoscere e ci consente di affacciarci su un mondo diverso, il mondo capovolto, il mondo degli opposti. Per Borges, inoltre, «gli specchi, come la copula, sono abominevoli, poiché moltiplicano il numero degli uomini». Ma lo specchio di Della Rossa è un finto specchio. Quando la figura umana è assente, vediamo che la cornice inquadra solo un muro, sbrecciato e lebbroso, come in un dipinto informale. Non c’è vetro, la riflessione è negata a vantaggio di un utilizzo della cornice quasi tradizionale, ad inquadrare un simulacro di pittura. Che la fotografa sia anche, o sia stata, una pittrice appassionata, assorta a indagare gli spazi metaforici che dalla superficie del dipinto possono alludere alle complesse dinamiche del pensiero, ha sicuramente la sua importanza. Eppure, è proprio con la fotografia che Pina Della Rossa partecipa alla svolta epistemologica che mette in dubbio le immagini percepite con lo sguardo, per rendere visibile ed esperibile solo il riprodotto e il riproducibile.

Allieva di Mimmo Jodice, la Della Rossa non ne imita lo stile, ma dal maestro trae l’insegnamento a organizzare il campo visivo e a studiare il valore simbolico della luce e degli spazi nei quali si muovono le figure. La fotografia attraversa il riconoscimento goethiano dell’effimero e mette in crisi i mobili confini razionali del mondo. Coglie lo scorrere in divenire della realtà. L’intervento creativo dell’artista è, però, un’esigenza inalienabile, manipolando l’immagine a livello di inquadratura, posa e scelta del soggetto.

Nei suoi specchi vuoti, quel che colpisce sono alcuni caratteri ricorrenti, insistenti: i dettagli di un corpo, i muri grumosi come croste di un vecchio dipinto. Il tutto con un’aura di travestimento magrittiano, dove è indubbiamente la figura umana che fa trapelare un sentimento inerme. La fotografia ferma così la memoria e si fa racconto, in forme adatte e adeguate a esser guardate come artistiche indipendentemente da criteri estetici che, come sappiamo bene, sono sempre meno definibili. All’interno di questi fotogrammi, il filo rosso di una narrazione troncata percorre un’esperienza esistenziale pudicamente celata. C’è una creatività apparentemente contenuta, non sfarzosa, non abbagliante ma fatta di dettagli che collaborano alla visione di un’intima solitudine. L’artista è sola e i suoi modelli (il suo doppio) celano il volto o si ritraggono fuggendo. Come partecipare, allora, a questa «solitudine aberrante» (citando Barthes) provocata dai dettagli di un corpo o di un abbigliamento che rimandano a un’aura di modificazione, di postiche-pastiche, a una sorta di crudele modestia che intenerisce? Per una delle letture che se ne possono avanzare, il concetto di fotografia espresso da Pina Della Rossa è alieno da ogni realismo, acquisendo senso dal forte pittoricismo, sia che tratti di architetture fatiscenti, sia che si focalizzi su dettagli di muri, di lamiere, di cornici. Pittura, ovviamente, nell’era della sua riproducibilità tecnologica, alla ricerca di un terreno d’intersezione tra immagine, comunicazione e memoria, per cogliere i fenomeni e gli eventi nella loro complessità, con la pervicace intenzione di non arrendersi al flusso omologante dell’immaginario mediale diffuso, ma di rischiare la connessione tra ambiguità e irresolutezza.

Possiamo guardare le foto (non a caso disposte in brevi sequenze) e abbandonarci alla loro forza narrativa, alla sommessa volontà di raccontare e raccontarsi attraverso la messa in scena con la quale l’artista ha organizzato i luoghi e le cose da fotografare, raramente preferendo l’istantanea di un paesaggio così com’è, se non quando la realtà, miracolosamente, coincide con i suoi intenti, come accade nelle foto di un balcone decrepito in un palazzo abbandonato, ritratto da una perfetta e nuova finestra del Madre. Come ulteriore riferimento, su questo tema è impossibile non citare ancora La camera chiara di Roland Barthes, e in particolare il paragrafo in cui l’autore individua l’importanza del referente nella fotografia rispetto agli altri sistemi di rappresentazione: «Chiamo “referente fotografico”, non già la cosa facoltativamente reale a cui rimanda un’immagine o un segno, bensì la cosa necessariamente reale che è stata posta dinanzi all’obbiettivo, senza cui non vi sarebbe fotografia alcuna. La pittura può simulare la realtà senza averla vista. Il parlare combina segni che hanno certamente dei referenti, solo che tali referenti possono essere e sono il più delle volte delle “chimere”. Nella fotografia, contrariamente a quanto è per tali imitazioni, io non posso mai negare che la cosa è stata là». L’oggettività della fotografia le conferisce un potere di attendibilità assente da qualsiasi opera pittorica, la fotografia beneficia di un transfert di realtà dalla cosa alla sua riproduzione. Tuttavia l’immobilità e la pietrificazione del gesto in un istante fisso, rendono palese il paradossale rapporto con il tempo, la pretesa magica di ricostituire un doppio della vita reale e di sottrarlo alla morte. Le immagini fotografiche sono la presenza inquietante di vite arrestate nella loro durata.

Abbiamo visto come su questo inquietante rapporto Pina Della Rossa, dalla registrazione dell’insignificante, arriva a decostruzioni che ricordano l’astrattismo espressionista. Così che mondo reale e mondo rappresentato si sovrappongono, realizzando un metaforico specchio della realtà, moltiplicandosi senza tregua, come in un gioco di riflessi. Questa autogerminazione di immagini incrementa a ogni passaggio la sua valenza concettuale e ci svela finalmente il perché di una cornice vuota, dove il vetro dello specchio sarebbe stato superfluo.

DETTAGLIO COME METAFORA

Ryszard Kapuscinski, il noto giornalista polacco, in Comunicazione ed umanità, scriveva: «se viaggio con una macchina fotografica guardo il mondo in maniera completamente diversa che non se vado in giro con un amico con cui discuto. Perché allora è la discussione a essere la cosa più importante, non la realtà che mi circonda, e di cui neanche finisco per accorgermi. Ma quando mi muovo con una macchina fotografica con lo scopo di fotografare una città, della gente o una scena, allora sono veramente concentrato sul dettaglio. E cerco, cerco… Perché la fotografia è il dettaglio, è la composizione del dettaglio, è il tentativo di ritrovarvi metafore e simboli, e di osservarlo, di riflettervi sopra: su quanto conosciamo del mondo per suo tramite, su cosa esso ci dice. Questo è quello che vede l’occhio del pittore o del fotografo concentrato su quel dettaglio. Perché per me la realtà è l’unione di queste due cose: la descrizione e la sintesi di ciò che essa significa dal punto di vista dei dettagli di cui è composta». Mi è venuto in mente questo scritto guardando le fotografie di Pina Della Rossa: immagini di dettagli, appunto, immagini pittoriche, metaforiche, sintetiche, scattate in solitudine, guardandosi intorno con occhio ispirato e partecipe. Immagini nelle quali, a dispetto della laconicità (pittorica o analitica, è tutto da scoprire), si ricrea, come a teatro, una messa in scena dove gioco e disagio, turbamento e magia, irretiscono lo spettatore. Rami fitti e scarni, dove raramente spunta un fiore, fantasmi giornalieri del panorama periferico: una realtà che si rivela un incubo, un paesaggio lucido e angoscioso. Pittura e fotografia: dialogo intenso tra due mezzi di rappresentazione, mettendo così in relazione linguaggi diversi all’interno della stessa immagine. Le foto si aprono – per trasparenza di stesura del colore, o per sovrapposizione di spazi successivi – a una profondità senza definizione ultimativa in cui fluiscono segni e tracciati, toppe materiche o emulsioni fotografiche. Se la logica astratta, cioè basata su una disposizione cromatica e spaziale senza riferimenti naturalistici, si affida a leggi percettive e costruttive di tipo informale, la rappresentazione tiene conto della sua possibile fotogenia, senza mai dimenticare che la fotografia è sempre il prodotto di un insieme di casualità, di scelte e di tecniche combinate. Le immagini agiscono in una densità simbolica che costituisce uno dei tratti più caratteristici della produzione di Pina Della Rossa, essa stessa chiave d’interpretazione delle iconografie e degli stilemi ricorrenti nei suoi lavori, a partire dalle foto dei suoi paesaggi o dalle fotografie delle sue sfuggenti figure, riprese in movimento o di spalle. E comunque, l’oggetto fotografato non è mai semplice pretesto per l’esplicazione di una bravura tecnica, poiché la resa per immagini rivela una scrupolosa aderenza ai contenuti di una pudica autobiografia, punto di incontro tra sensibilità e opera finita. Non è un mistero per nessuno che la vera iconografia del nostro tempo si rifà alle figure generate dal cinema, dalla pubblicità, dalle immagini di sintesi della computergrafica. Il volontario distacco da tale processo di assimilazione iconica, ha per Della Rossa il merito e la forza di restituirci quanto c’è ancora di misterioso e terribile nell’atto mnemonico della riproduzione del reale, per un campo di indagine che integra le dimensioni multidisciplinari presenti all’interno dell’arte della visione, valorizzando i diversi gradi cognitivi dell’occhio e della psiche. Un approccio del lavorare con le immagini che colloca il suo specifico linguaggio nella tradizione del suo maestro, Mimmo Jodice, proponendo la fotografia come strumento di riflessione e di analisi. Fotografando un paesaggio sconosciuto e al tempo stesso familiare. Lo guardiamo e ci stupiamo. In queste immagini da dopoguerra infinita ci ritornano degli odori e dei suoni. La terra, gli arbusti, vecchie lamiere arrugginite, precarietà e persistenza, coesistenza dialettica di memoria e oblio, di visibilità e invisibilità, di vita e morte.

Mario Franco